A Via San Cosimato 7 nel romano rione di Trastevere non c’è più nessuno che possa dire di averlo
conosciuto: dal giorno in cui qui era nato Alberto Sordi
saranno passati 100 anni il 15 giugno. Sul muro una targa
ricorda questo romano illustre che nella memoria collettiva
incarna l’italiano esemplare con tutti i suoi grandi difetti e
le sue piccole virtù. Figlio di un maestro strumentista (suonava
la tuba e insegnava musica) e di una maestra, Albertone passò
l’infanzia a Valmontone. Tornato a Roma nel 1937, studiò canto
lirico fino a far parte del coro della Sistina: era un ragazzino
con la voce da soprano, ma ben presto si scoprì un basso
naturale. Anni dopo i primi contratti da doppiatore prestando la
voce a Oliver Hardy, dopo aver vinto un concorso della Metro
Goldwin Mayer nel 1937. La musica gli fu amica tante volte, dal
teatro di rivista (rievocato nel suo “Polvere di stelle”)
durante la guerra fino al servizio militare quando militò nella
banda del reggimento di fanteria “Torino”, dall’iscrizione alla
Siae come mandolinista negli anni ’50 fino alle musiche di “Fumo
di Londra” (la sua prima regia) che volle firmare insieme a
Giuseppe Piccioni. I primi successi arrivano subito dopo la
guerra, alla radio, con una gamma di personaggi diventati
immortali: Il compagnuccio della parrocchietta, Mario Pio, il
Conte Claro. Quella che poteva essere la sua maledizione (un
marcato accento trasteverino che gli valse la cacciata dalla
milanese Accademia dei Filodrammatici) fu invece la chiave della
sua popolarità. Su di lui scommise da produttore Vittorio De
Sica per lo sfortunato “Mamma mia, che impressione” che
attingeva a piene mani nel repertorio radiofonico, ma
soprattutto il quasi coetaneo Federico Fellini che lo volle
protagonista del suo esordio, “Lo sceicco bianco” (1952). Per
Fellini incarnò un divo dei fotoromanzi ma l’esperienza
fallimentare non ruppe l’amicizia fra i due e con il successivo
“I vitelloni” il vento cominciò a soffiare nella giusta
direzione. Sordi si accomodò come in una seconda pelle nella
parte dell’indolente Alberto che passa le sue giornate tra
partite di biliardo, scherzi goliardici e malinconia del vivere.
Plasmata da un esperto artigiano della commedia come Steno,
quella maschera fece innamorare gli spettatori tra “Un giorno in
pretura”, “Piccola posta” e soprattutto “Un americano a Roma
(1954) col bulletto Nando Moriconi. Da quel momento la sua
carriera divenne frenetica al ritmo di anche 10 pellicole
all’anno per un record di 152 apparizioni fino alla morte, il 24
febbraio del 2003. Se negli anni ’50 Alberto Sordi dà vita a
personaggi essenzialmente comici e parodistici, con gli anni
’60 si prepara diventare uno dei quattro “colonnelli” della
commedia all’italiana. La svolta coincide però con
un’interpretazione drammatica in uno dei film più importanti
nella storia del cinema italiano: “La grande guerra” di Mario
Monicelli, premiato alla Mostra di Venezia col Leone d’oro e
avversato da schiere di moralisti e conservatori. L’anno dopo
avrebbe bissato con un altro film sul doppio crinale della
commedia e della tragedia, “Tutti a casa” di Luigi Comencini:
ancora una volta con un debole capace di riscatto durante un
momento cruciale della Storia, l’8 settembre 1943 e la
successiva scelta della Resistenza. Nel 1961 Sordi prosegue
nella sua personale rivisitazione dei fatti italiani con “Una
vita difficile” di Dino Risi. Adesso a sceglierlo sono i maestri
di quella commedia di costume che fustiga senza pietà i difetti
dell’italiano medio. Sordi partecipa spesso all’elaborazione dei
copione (circa 140 oltre alle sue regie) e trova nel veneto
Rodolfo Sonego il suo complice prediletto. L’uomo era molto più
colto e riflessivo di quanto amasse mostrare e perfino nel cupo
“Un borghese piccolo piccolo” (sempre di Monicelli) appare tanto
spaesato quanto consapevole nel ruolo dell’impiegato Giovanni
Vivaldi, implacabile killer per desiderio di giustizia e di
vendetta dopo la morte del figlio. I suoi successi sono ormai
eterni e perfino la critica americana lo celebra oggi come un
monumento dell’arte della recitazione. Sarebbe un errore pensare
che siano l’improvvisazione e la naturalezza le chiavi con cui
riusciva a calarsi in protagonisti tanto diversi: da “Boom”, de
“I mostri”, “Gastone”, “Il medico della mutua” (forse il più
emblematico di tutti), “Nell’anno del Signore”, “La più bella
serata della mia vita”, “Lo scopone scientifico”, “Il marchese
del Grillo”. Nel 1966 volle dirigersi da solo e “Fumo di
Londra” rivelò bene le sue contraddizioni personali con un
anti-eroe incapace di comprendere il cambiamento del tempo. Gli
ottimi incassi della pellicola lo convinsero a ripetersi e alla
fine si sarebbe raccontato in 19 film. Con Fellini non avrebbe
lavorato più ma alla Cineteca Nazionale si conserva un suo
memorabile “provino” per il “Casanova”.
Per tutta la vita, con sua oggettiva soddisfazione, gli è
rimasta appiccicata l’etichetta dell'”italiano medio”, furbo,
piacione, vigliacco o debole, a suo modo ingenuo e in fondo di
sani principi. Ma Alberto Sordi in verità sapeva fare tutto (lo
confermano le doti da entertainer televisivo e le prove da
ballerino), teneva alla sua vita privata (unico amore confessato
quello in gioventù per Andreina Pagnani), si fidava solo della
sua famiglia (un fratello manager, due sorelle ancelle e custodi
della sua bella villa sulla via Appia), mostrava generosità
pudiche come le donazioni assistenziali, religiosità non
ostentata e la bonomia sempre confermata per quello che aveva
eletto a erede artistico, Carlo Verdone. A settembre, fin qui
rimandata, si aprirà la mostra a lui dedicata nella sua
casa-fondazione. Per ricordare quanto sia stato un mito del ‘900
bastano alcuni dettagli: il 15 giugno del 2000 il sindaco di
Roma, Francesco Rutelli, gli cedette per un giorno la sua fascia
tricolore; alla morte il suo corpo venne imbalsamato e così lo
salutarono, in un’interminabile processione di due giorni al
Campidoglio, tutti i suoi concittadini; ai funerali solenni in
San Giovanni in Laterano fu una folla di 250.000 persone ad
accompagnarlo per l’ultima volta. Narciso come un vero
mattatore, si costruì da solo la biografia artistica
nell’appassionata “Storia di un italiano” per la televisione
pubblica. Sulla sua tomba lo ricorda una battuta del “Marche del
Grillo”: “Sor Marchese, è l’ora”.