Le parole possono aiutare le donne a liberarsi da una gabbia e denunciare violenze e sopraffazioni. E possono contribuire a cambiare azioni e atteggiamenti delle nuove generazioni così come a cambiare lo sguardo degli uomini sulle donne. Ma sbagliare il linguaggio può provocare danni gravissimi, contribuendo a rafforzare pregiudizi e stereotipi e causando un dolore supplementare alle vittime. Per aumentare la consapevolezza e aiutare i professionisti dell’informazione a trovare sempre le parole giuste, è stato messo a punto un decalogo di parole e luoghi comuni da non usare quando si racconta la violenza di genere. Nato in occasione della tappa fiorentina del progetto “Stop alla violenza di genere. Formare per fermare”, promosso dal Gruppo Menarini e accreditato dall’Ordine dei Giornalisti della Toscana presso l’Ordine dei Giornalisti Nazionale, l’elenco delle parole proibite è uno strumento pratico per parlare di violenza sulle donne in modo appropriato, pensato per aiutare i media ma anche l’opinione pubblica ad affrontare il tema in maniera opportuna. In Italia nel 2018 sono state uccise 69 donne, 7 milioni quelle che pur non avendo perso la vita sono state picchiate, maltrattate o violentate. Dal 2000 a oggi si è consumata una strage con 3100 vittime. “La lettura morbosa dei fatti finisce per minimizzare un reato gravissimo”, spiega Vittoria Doretti, direttora UOC Promozione ed Etica della Salute e Responsabile della Rete Regionale Codice Rosa della Regione Toscana. “I dettagli scabrosi che non aggiungono nulla alla cronaca spostano l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vittima, anziché sulla ferocia dell’aggressore – sottolinea – soffermarsi su ‘come era vestita la vittima’ o descrivere in dettaglio le ferite è come sottoporre le donne a una seconda violenza”. Le parole pesano come macigni, e nel decalogo contro gli stereotipi diventano da bollino rosso espressioni come ‘amore malato’, ‘raptus’, ‘lei lo tradiva’, ‘se l’è cercata’.