L’analisi fuorviante della tragedia che si è consumata a Napoli con l’assassinio del giovane musicista Giovanbattista Cutolo rischia di ritardare la messa a punto di soluzioni adeguate. Occorre interpretare correttamente ciò che accade a Napoli ormai da diversi anni e affrontare la questione alla radice. Solo così si può tentare di evitare che episodi analoghi si ripetano. Il richiamo al ruolo che le famiglie e la scuola potrebbero avere nell’arginare la violenza tra i più giovani è doveroso e non è privo di significato. In questa circostanza siamo, però, in presenza di un fatto gravissimo che coinvolge altre “famiglie” e talune tutt’altro che prive di strumenti per controllare i propri ragazzi. La riduzione del tasso di abbandono scolastico così come la capacità di orientare l’educazione dei ragazzi verso modelli di convivenza civile sono aspetti sistemici importanti. Tuttavia, considerare questo episodio come un fatto che sconvolge la comunità cittadina, affetta dall’escalation della violenza giovanile, è una lettura piuttosto miope che trasferisce su un piano generazionale una grave problematica di ordine pubblico. Così come l’influenza indiretta di consumi culturali, come videogiochi e fiction, in cui ragazzini impugnano le armi per compiere stragi immaginarie, rischiano di allontanarci dalla realtà e dalle soluzioni. Intendiamoci, le risposte culturali sono importantissime e nel lungo periodo potranno rappresentare davvero un argine istituzionale contro il dilagare di questi fenomeni. Ciò nonostante, l’attenzione deve concentrarsi sulla ricerca di soluzioni concrete per il disarmo della città. Perché è questo il nodo della questione. Per trovare soluzioni di pace occorre riconoscere che a Napoli è in corso una guerra urbana violentissima con bande di giovani soldati armati, sparpagliati in tutti i quartieri e disposti a commettere gli omicidi più efferati pur di affermare il proprio potere militare. Molti lo ignorano, ma ci sono città e contesti nazionali dove l’uso delle armi da fuoco è inibito persino ai tutori dell’ordine pubblico, dove la sola idea di portare con sé un coltello o una scacciacani rappresentano veri e propri tabù. Nella nostra città, sembrano, invece, equipaggiamenti piuttosto comuni. Molti ricorderanno la consegna rituale di coltelli che il cardinale Sepe soleva richiedere ai fedeli in chiesa, prima di celebrare la messa. Come a dire che non si portano le armi nella casa del Signore e che la Chiesa non ignora la realtà che la circonda ma almeno sul proprio territorio è sovrana. Ecco, tenderei a inquadrare quello che è successo come una grave perdita di sovranità dello Stato. Non bisogna mica scomodare Max Weber per ricordare a tutti che è solo lo Stato che può avere il monopolio legittimo della forza? Dunque, come disarmare la città? Quali politiche pubbliche intraprendere per contrastare non il dilagare della violenza ma la sua causa prima, vale a dire la facilità di reperire armi e il suo diffondersi anche tra i più giovani? Se davvero si vuole impedire che si verifichino morti assurde come quella Giovanbattista Cutolo, che scaturiscono dall’esplosione di colpi di arma da fuoco o dagli accoltellamenti bisogna bandirne l’utilizzo, scovare gli arsenali, irrigidire le misure e le pene sulla mera detenzione. È necessario allestire un tavolo istituzionale per misurarsi con questa difficile sfida, confrontandosi con le misure che si prendono in teatri di guerra. A poco serve militarizzare la città, piuttosto bisogna insinuarsi con azioni di intelligence negli interstizi più bui e nascosti dove le armi diventano accessibili persino ad un ragazzino. Certo la tragedia non si è compiuta ai Quartieri Spagnoli, vessillo del nuovo alone di rassicurante sicurezza, tanto utile al rilancio turistico della città (sebbene Piazza Municipio sia solo a pochi passi) ma la sostanza cambia poco. In attesa di generare il tabù nell’uso delle armi e prima che sopraggiunga la prossima vittima innocente, serve un approccio serio ad un problema drammaticamente attuale, capace di non fermarsi agli interventi di facciata.