Studenti e professionisti, in buone condizioni di salute ma sotto pressione per lavoro o esami: sono loro i potenziali consumatori di farmaci utilizzati in modo improprio per potenziare l’attenzione e la memoria, un fenomeno in crescita ancora molto poco indagato in Italia. In un’indagine condotta su decine di migliaia di persone nel mondo, il 14% degli intervistati ha dichiarato di aver utilizzato ‘smart drug’, almeno una volta nei 12 mesi precedenti nel 2017, rispetto al 5% del 2015, con una crescita del 9% in due anni e picchi di aumento che si registrano in Europa. “E’ un problema rilevante e noto all’estero più che da noi, anche perché in Italia i dati ufficiali sono scarsi e il fenomeno non è indagato quanto dovrebbe”, commenta all’ANSA Gabriele Miceli, ordinario di Neurologia presso l’Università di Trento. “Ci parla di un disagio che ci porta a esigere sempre
più da noi stessi. Chiediamo sempre di più a un organismo che
non è pensato per i ritmi che la società impone”.
Ad esser stato analizzato per uno studio pubblicato
nell’International Journal of Drug Policy e ripreso da Nature
online, è l’uso di sostanze normalmente prescritte nel
trattamento del disturbo da deficit di attenzione e iperattività
(ADHD) e di farmaci studiati per curare i disordini del sonno,
come la narcolessia. Negli Usa è stato riportato il più alto
tasso di utilizzo: nel 2017 quasi il 30% degli intervistati ha
dichiarato di aver usato questo ‘doping del cervello’ non per
motivi di salute almeno una volta nei precedenti 12 mesi, nel
2015 erano il 20%. Ma i maggiori aumenti sono stati in Europa:
dal 2015 al 2017 l’uso in Francia è salito dal 3% al 16%, nel
Regno Unito dal 5% al 23%, in Olanda dal 10% al 24%, in Irlanda
dal 4% al 18%. Quasi la metà (48%) delle persone ha dichiarato
di avere avuto questi farmaci attraverso gli amici; il 10% li ha
acquistati da un rivenditore o su internet; il 6% li ha ottenuti
da un membro della famiglia; e il 4% aveva proprie ricette.
Percentuali simili sono osservate anche negli studi sulla
popolazione generale, e ciò “suggerisce che i risultati
dell’indagine sono robusti”, puntualizza la prima autrice
Larissa Maier, psicologa dell’Università della California, San
Francisco.
Il report si basa sui dati del Global Drug Survey e include
15 nazioni, compresi molti nostri ‘vicini di casa’, ma non ha
numeri riguardo all’Italia. “Di fatto – afferma Miceli – la
raccolta di informazioni in materia è complessa anche perché c’è
reticenza da parte degli intervistati, anche quando le
rilevazioni garantiscono l’anonimato. Le categorie più a rischio
sono disparate, e includono non solo studenti che preparano
esami, ma anche lavoratori che devono svolgere turni prolungati,
spesso anche notturni, come autotrasportatori e operatori
sanitari”. Ma alla lunga i nodi vengono al pettine. “Un conto è
l’uso medico e un altro è l’abuso. Si tratta – precisa – di
amfetamine e amfetaminosimili che vanno presi sotto controllo
medico, perché oltre a diminuire il senso di stanchezza,
aumentano pressione e frequenza cardiaca”. Quello che si rischia
inoltre è la dipendenza. “Al senso di euforia ed energia indotte
da farmaci – conclude – una volta abituatisi è difficile
rinunciare”.