Si parla della grande magia che e’ il teatro in questo ”Arte della commedia” di Eduardo De Filippo, e cio’ pare affascinare il pubblico, specie quello piu’ giovane, che nelle oltre due ore e mezzo di spettacolo abbiamo visto applaudire spesso e diventare calorosissimo alla fine con gli interpreti di questa messinscena prodotta da Ellediffe e dallo Stabile napoletano con la regia di Fausto Russo Alesi, anche nei panni del capocomico Oreste Campese, proposto al Teatro San Ferdinando, quello che fu proprio di Eduardo, e che sara’ in tournee, con prime tappe il 15 marzo a Tuscania (Vt), il 17 a
Cagli (Pu), per arrivare poi alla Pergola di Firenze.
Forse a affascinare i piu’ giovani e’ proprio quella parte che
ai primi critici, nel 1965, apparve un poco didascalica, in cui
Eduardo, attraverso il suo capocomico se la prende con la
storica persecuzione degli attori e la poca attenzione della
politica al teatro (”Le cose fatte a meta’ non hanno mai dato
buoni risultati”), che aveva pagato sulla sua pelle in specie
relativamente alla sua ricostruzione proprio del San Ferdinando,
sottolineando che il problema e’ se ”Questo benedetto teatro sia
di interesse nazionale o no?”. Ed e’ nella denuncia insita
nell’affrontare i temi che nascono da tale domanda l’attualita’
di questo lavoro, raramente rappresentato, davanti alla crisi
odierna, acuita dagli anni della pandemia.
C’e’ un carrozzone dei comici simbolicamente andato a fuoco e
il mite Campese che si reca dal Prefetto De Caro appena
insediato per chiedere un aiuto e trova udienza perche’ ”gli
attori suon brava gente che fa perder tempo ma anche guadagnare
un po’ di buonumore”. Inizia cosi’ una chiaccherata che diventa
presto un confronto, allargandosi dalla funzione sociale del
teatro, appunto alla societa’ di cui e’ specchio, alla verita’ dei
suoi bisogni, perche’ tra il gioco delle apparenze, della recita,
e quello della vita spesso le differenze sembra finiscano per
annullarsi, spendo da attore che la ”massima verita’ nasce dalla
massima finzione”.
L’incontro si chiude con una sfida al prefetto che sta per
incontrare alcune figure chiave del paese, cosi’ che nel secondo
tempo questi si trovera’ nell’ansiosa condizione di non riuscire
a capire se i postulanti che si presentano nel suo ufficio siano
attori mandati da Campese, che fingono, o persone che sono e
hanno bisogni reali, perche’ alla fine, non fa molta differenza e
Eduardo costruisce il gioco con abilita’ eccezionale, sino
all’ultima battuta, non meno spiazzante delle precedenti, dopo
le quali la scenografia (di Marco Rossi), il teatro crolla
emblematicamente, a abolire ogni separazione tra recita e
realta’ .
Un testo che deve molto a Pirandello. Innanzitutto al suo
”Cosi’ e’ se vi pare”, tanto che l’ultima battuta del
maresciallo dei carabinieri se entrasse davvero, potrebbe essere
quella della signora Frola: ”Io sono colei che mi si crede”, e
poi ai discorsi sull’illusione delle apparenze dei ”Sei
personaggi”, alludendo chiaramente ai quali la regia,
all’inizio, fa materializzare i suoi attori dal buio.
Una regia che punta proprio sulla teatralita’ , in tutti i
sensi, di questo testo, non solo aggiungendo la figura di un
attrezzista che recita piu’ o meno le didascalie, ma soprattutto
lavorando davvero molto sugli attori e la dizione, che e’
incisiva, esemplare, e gioca sul limite tra il ricordare che si
sta recitando e la necessaria naturalezza e credibilita’ . Questo
non toglie che pure l’azione sia costruita e voluta, anche in
quelli che paiono alcuni eccessi farseschi nei personaggi che
sfilano davanti al prefetto, specie il prete e il farmacista
(per la cui parodistica morte infinita si e’ voluto usare un
ballerino), probabilmente a sottolineare che alla fine, attori o
no, tutti recitano comunque e che le tragedie personali dei
singoli hanno sempre un lato appunto comico paradossale. Anche
se l’essere un poco meno sopra le righe accrescerebbe il pathos
e il coinvolgimento del pubblico.
Comunque tanti applausi per l’impegno degli interpreti:
dall’appassionato e subdolo Campese (quasi padre dei Sei
personaggi) di Russo Alesi, che e’ anche l’agitato parroco col
suo dramma, alla verita’ dello sconcertato e inquisitorio
prefetto di Alex Cendron; dalla presunzione, tenuta con
disperazione sin nel drammatico finale, del segretario del
prefetto Paolo Zuccari (dall’incongruo accento romanesco), alla
maestra con i suoi fantasmi di una sempre credibile Imma Villa;
dall’agitazione del medico di Filippo Luna, che vede il proprio
impegno confuso con le grazie di un venerato crocifisso, al
teatrale farmacista Demian Troiano Hackman, cui si aggiungono il
militare di David Meden, umano e marionetta assieme, e la
sufficienza dell’attrezzista di Michele Schiano di Cola.