A Cura di Valentina Busiello

Enrico Oliari, giornalista e saggista, spiega attraverso la sua esperienza di attivista il concetto di Cultura Omoaffettiva.

Dottor Enrico Oliari, lei è stato un noto attivista per i diritti civili delle persone “Omoaffettive”: ci spiega il perchè di questo termine?

Omosessuale è un termine superato, ottocentesco, come pure “gay” che deriva dall’inglese, e che significa “allegro” riferito ad un comportamento espressivo in modo fuorviane, per farla breve frivolo – effeminato.

A me piace dare centralità alla sfera affettiva prima che a quella sessuale, cioè uno è omoaffettivo nel momento in cui la sua predisposizione psicologica è portata ad avere relazioni con persone dello stesso sesso.

Pensi che in passato vi sono stati termini quasi impronunziabili, come in occasione della discussione alla Camera del neo nato Regno d’Italia sull’introduzione legge contro l’omosessualità (l’Italia è stato l’unico Paese a non ha mai avuto una legge contro l’omosessualità): si arrivò nella discussione a parlare di “urningi”. La proposta di legge poi non passò per la forte presenza di liberali ma io direi anche di massoni, fra cui il guardasigilli Zanardelli.

Possiamo affermare che oggi l’essere gay non viene più visto come una forma di diversità?

Voglio evidenziare che ciò è frutto di una lotta. Non è casuale, abbiamo dovuto lottare in modo incessante:  dico noi in quanto movimento gay italiano, di cui ne ho fatto parte e ne faccio ancora parte poiché sono stato uno dei fondatori dell’Associazione nazionale dei gay liberali “GayLib”, di cui per quasi 25 anni ne sono stato presidente.

Rispetto alle prime battaglie per l’emancipazione, quando la sfida era metterci la faccia, le cose sono cambiate in modo radicale, poiché sono cambiate le esigenze sociali. Se in un primo momento era essenziale affermare la propria esistenza in una società omologata, come poteva essere quella degli anni 1950-60, in seguito si è puntato sul riconoscimento della coppia, e qui  in qualche modo sono stato protagonista. In un momento in cui la principale associazione gay italiana, Arcigay, aveva puntato sulla strategia del riconoscimento della coppia sul modello delle unioni di fatto (il mio amico Franco Grillini parlava dei diritti di “due nonnine che vivono insieme”), noi puntavamo all’allargamento del matrimonio alle coppie dello stesso sesso, o quantomeno ad un istituto giuridico che avesse i medesimi diritti. Così noi siamo stati, tra le perplessità e la scarsa fiducia del movimento gay di sinistra, prima alla Corte costituzionale e poi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, dove abbiamo avuto ragione: la sentenza 138/10 della Corte costituzionale e la causa “Oliari vs. Italia” sono i pilastri su cui si fonda la legge Cirinnà sule Unioni Civili. Noi abbiamo vinto perché credevamo nell’uguaglianza, il movimento di sinistra, che era maggioritario, sosteneva invece la teoria dell’accettazione delle diversità.

Un altro successo che mi piace ricordare è la nascita dell’Oscad, l’Osservatorio della Polizia contro gli atti discriminatori, frutto di un nostro lavoro con l’allora capo della Polizia, il prefetto Manganelli.

Ci parla del suo libro, Omosessuali? Compagni che sbagliano?

Si tratta ti un saggio storico, dove cerco di spiegare la storica omofobia del mondo di sinistra sia in Italia che in quelli che erano i paesi socialisti: mentre i nazisti vedevano l’omosessualità come un problema genetico, per i comunisti era un problema di classe. Per cui l’omosessualità era sostanzialmente una degenerazione borghese, il male delle classi abbienti che non avevano voglia di lavorare. Uscire dalla morale comunista in una società operaia come poteva essere quella di Mirafiori significava la morte sociale.

Tra l’altro già l’Italia aveva avuto nella sua storia particolarità oserei dire curiose: l’omosessualità fu depenalizzata in occasione della stesura del Codice Zanardelli, nel 1889, ma prima era in vigore lo Statuto Albertino che all’art.145 prevedeva condanne fino a 5 anni di carcere per i gay; tuttavia quando fu introdotto nel regno a seguito dell’Unificazione, un decreto luogotenenziale stabilì la non applicabilità al sud Italia, in quanto lì era in vigore, come direbbe Giovanni Dall’Orto, la “società della vergogna”, più punitiva per certi versi della “società della colpa” attuata al nord.

Nel libro poi compio un percorso storico, con la pochissima stima e la molta mal sopportazione riservata dal partito Comunista italiano a Pierpaolo Pasolini, che poi verrà espulso, per passare all’analisi dei codici e delle realtà dei paesi comunisti, con interviste a persone omoaffettive dell’epoca: vi sono lesbiche finite in prigione in Albania, omosessuali nei Lager ideati dal Che Guevara e via dicendo.

Lei ci parlava di una differenza fra la teoria dell’uguaglianza e quella dell’accettazione delle diversità. Ci spiega questo concetto?

Anche nella comunicazione c’è chi vuole parlare la differenza. Di per sé la diversità è ricchezza, ma siamo un unico genere umano, e non possiamo essere diversi da noi stessi. Il movimento gay di oggi, con le sue istanze che non condivido, utilizza ad esempio nella comunicazione esternazioni ai gay pride che hanno lo scopo di marcare la molteplicità, ma sfido certe maschere a presentarsi al lavoro in banca il giorno dopo. O ancora ci si affida ad una serie impronunciabile di sigle, lgbtqixyz, quasi si cercasse una rivoluzione culturale per un singolo nucleo di persone.

No: io credo che la forza stia nella “normalizzazione”, cioè di essere attivamente e passivamente nella società “uguali” agli altri, e non “diversi”. Tu “mi accetti” perchè sono uguale a te, non “mi devi accettare” anche se sono diverso”. Lo prevede la Costituzione.

Il vero problema è che il movimento gay italiano non ha mai puntato sulla valorizzazione del ricco patrimonio culturale gay italiano, preferendo il finanziamento di forme di lotta ormai obsolete, come i gay pride, al sostenere studiosi o forme di interventi sociali per i bisognosi: la comunità gay, come molti la chiamano, non esiste, dal momento che manca una propria identità. E per avere una propria identità è necessario avere una propria cultura e un sistema solidaristico interno.

Dirige il noto quotidiano on line Notizie Geopolitiche, dove si leggono firme note del giornalismo italiano su temi trattati in ambienti e contesti nazionali ed internazionali. Cosa ci può dire in merito?

I nostri giornalisti sono sempre sul posto, sia nel territorio nazionale che all’estero. Quest’ultimo aspetto rappresenta uno dei nostri punti di forza, in quanto ci portiamo nelle aree critiche per avere notizie di prima mano. Siamo stati nei teatri di guerra come la Libia, l’Iraq, l’Afghanistan, ecc, per cui riluciamo a lavorare su informazioni inedite, cosa che oggi nel giornalismo si è un po’ persa in quanto si tende ad affidarsi alle agenzie, con il rischio di dire tutti la stessa cosa.