In Storia di chi fugge e di chi resta, terza parte de L’amica geniale di Elena Ferrante, a un certo punto la narrazione assume le caratteristiche dell’inchiesta sociologica. Succede quando Lila, la protagonista, parla a focus 111un’assemblea di un gruppo extraparlamentare della sua condizione di operaia e di donna in una fabbrica di insaccati. Nelle sue parole scorrono immagini violente: dai ritmi di lavoro forsennati all’obbligo di entrare e uscire da celle frigorifere a venti gradi sotto zero, sino alla violenza sessuale dei capi (e anche di qualche operaio) che costringono le donne ad accettare ogni tipo di sopruso pur di evitare il licenziamento. In quella fabbrica i lavoratori sono all’assoluta mercé del padrone; il sindacato è inesistente e Lila sarà costretta a licenziarsi per evitare di sottostare a quella schiavitù che annulla ogni dignità umana. I militanti – che hanno un approccio puramente teorico al conflitto tra capitale e lavoro – a quelle frasi concitate, disperate e gridate, restano in silenzio, attoniti. Per la prima volta, senza mediazioni culturali, da un’operaia in carne e ossa hanno un’idea realistica della vita in fabbrica e comprendono il significato di parole come sfruttamento, alienazione, repressione da parte di chi ha il potere di decidere della tua vita.
Dopo il licenziamento, però, a differenza di altre storie dei nostri giorni, l’amica geniale riuscirà a reinserirsi nel mondo del lavoro diventando un’esperta informatica. Questo momento della narrazione della Ferrante ci è tornato alla mente durante la lettura del libro di Loris Campetti, Non ho l’età. Perdere il lavoro a 50 anni (Manni, 2015), con introduzione di Rossana Rossanda. Campetti, per anni giornalista del Manifesto, da una vita fa inchiesta, narrando, da una parte all’altra della penisola, il lavoro al tempo della grande trasformazione neoliberista. È stato tra i pochi giornalisti italiani che al referendum voluto da Marchionne a Pomigliano ha messo il dito nella piaga mostrando come il piano Fiat non fosse altro che un furto di dignità ai danni della comunità operaia; da lì sarebbe passata una strategia autoritaria estesa a ogni altra attività, senza distinzione di generi o segmenti produttivi. In quest’ottica, la lotta dei “disobbedienti” della Fiom – isolati oltre che dai media nazionali anche dagli autoreferenziali vertici della Cgil – costituiva un monito e, allo stesso tempo, una lezione di libertà. I provvedimenti governativi degli ultimi anni – da quelli della Fornero sulle pensioni al Jobs Act di Renzi – sono andati tutti in direzione della linea autoritaria tracciata da Marchionne e fatta propria dal sindacalismo corporativo e dall’ala più moderata della sinistra.
Questo ulteriore arretramento della società italiana ha spinto l’autore a scegliere un punto di osservazione molto particolare (e rivelatore) per spiegare cosa è accaduto in Italia dagli inizi del nuovo secolo: la perdita del lavoro a cinquant’anni, quando si è considerati troppo vecchi per lavorare e troppo giovani per accedere alla pensione. Le storie che Campetti racconta sembrano venire da un mondo che si pensava definitivamente scomparso. Nessuno, diversamente dalla eroina della Ferrante, è riuscito a salvarsi. In questo viaggio dal nord al sud della penisola si scorgono solo macerie; vite spezzate che parlano di incertezza, precarietà, disperazione. Gli intervistati scelgono quasi sempre l’anonimato; talvolta si rifiutano, finanche, di parlare delle umiliazioni che continuano a subire anche oltre i cancelli dell’azienda. Qualcuno si è suicidato, ma nessuno ne parla; il sindacato è lontano, incapace di ricostruire il suo legame sociale e di mettere in atto nuove iniziative di lotta e di solidarietà. Ciò che più colpisce tra chi è stato espulso dal processo produttivo è la paura, il senso di solitudine di chi ha perso ogni speranza nel futuro. È la stessa paura che si percepisce oggi tra i lavoratori di Pomigliano, che non scioperano più, né si iscrivono al sindacato, e, salvo rare eccezioni, accettano senza protestare le pressioni e i ricatti aziendali.
A pagare il prezzo di questa devastazione sono prima di tutto le donne. “Oggi – dice Edith, cinquantaquattro anni, licenziata prima da una fungaia e poi da una fabbrica tessile – il presente è difficile e il futuro coperto dalla nebbia. Così ho paura”. L’aria che si respira in fabbrica non è diversa. E succede che se hai un piccolo infortunio non lo denunci più per non creare problemi all’azienda e rischiare di essere emarginata. C’è però ancora qualcuno che prova a resistere, a fare qualcosa per invertire questa deriva; è il caso di una programmatrice informatica che ha guidato le lotte all’Eutelia: con una ventina di colleghi si è inventata un orto alla Garbatella. “La mia vita è finita a gambe all’aria, come sospesa in una bolla”, commenta.
Più tragica la storia di Nicolò, licenziato anch’egli a cinquantaquattro anni, che ha difficoltà respiratorie per essere stato esposto all’amianto scoibentando vagoni ferroviari all’Isochimica di Avellino, di proprietà di Elio Graziano. Quella “tosse maledetta” impedisce a Nicolò di trovare un altro lavoro perché alla visita medica scoprono immediatamente la gravità del suo stato di salute. “Qualche giorno fa – ricorda – abbiamo seppellito Salvatore. È la ventesima vittima dell’amianto ingoiato scoibentando tremila vagoni ferroviari senza alcuna protezione”. Il capolavoro mediatico di Graziano è stato quello di far passare l’idea che per colpa dei comunisti si rischiava di chiudere la fabbrica. A queste tragedie individuali, Campetti intreccia una indagine attenta su alcuni dei territori un tempo motore di sviluppo del paese e ora investiti da delocalizzazioni industriali che ne stanno trasformando in profondità il tessuto economico e produttivo. Nel bellunese, per esempio, distretto dell’occhialeria, anche il modello paternalistico di Del Vecchio sembra essere entrato in crisi. In queste zone, come in tante altre, cresce il fenomeno di lavoratori che per non incorrere nella repressione aziendale chiedono che la tessera sindacale gli venga consegnata brevi manu, evitando così che l’azienda conosca la loro appartenenza ideologica. Molto bella la storia di Goghi, un’operaia indiana – passata da una stalla al lavoro di facchinaggio in una fabbrica emiliana della Coop – che non accetta di essere schiava e si mette alla testa di un movimento di lotta per affermare i propri diritti e difendere il posto di lavoro di tutti i suoi colleghi licenziati.
Emblematica della mutazione genetica della sinistra è la storia del licenziamento di Sergio Caserta, sessantadue anni, dirigente cooperativo, che viene licenziato per aver scritto un articolo su Critica marxista in cui denunciava la scelte delle Coop, in particolare la scalata di Unipol a Bnl. A partire dagli anni Ottanta – secondo lui – l’evoluzione di quel movimento è sfociata in una modificazione di natura, nell’identificazione piena della cooperazione con la cultura economica del capitalismo. Ma anche le altre storie raccontate da Campetti non parlano che di una perdita; sono la spietata radiografia della sconfitta storica della sinistra. Ed è da questa consapevolezza che occorre partire per provare a ricostruire, tra le macerie di questo terribile nuovo millennio, un sentire collettivo e nuove forme di solidarietà tra gli ultimi. ( antonio grieco)

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