di Elia Fiorillo

Cade in questi giorni il trentesimo anniversario della morte di Enzo Tortora. Personaggio molto noto della televisione italiana nel ventennio sessanta-settanta. All’apice della carriera, il 17 giugno dell’83, viene platealmente arrestato perché accusato di associazione camorristica e traffico di droga. Sarà definitivamente assolto da tutte le accuse il 15 settembre del 1986 dalla Corte di appello di Napoli. Sconta ingiustamente sette mesi di carcere ed anche un periodo di arresti domiciliari dopo la condanna a dieci anni di prigione. I “domiciliari” poteva pure evitarli, bastava che non si dimettesse da Eurodeputato, eletto nelle file del partito radicale di Marco Pannella. Ma la coerenza è coerenza e non si gioca a seconda delle convenienze.

Una vicenda giudiziaria centrata molto sulla “mediaticità”, appunto per la notorietà del personaggio. Una brutta storia che vede un innocente accusato da “pentiti” di camorra, e non solo, per ripicche, ma anche per voglia di notorietà. Nel caso gioca un ruolo determinante la “libera informazione” (sic!) subordinata psicologicamente alle istituzioni, in particolare alla Magistratura.

Sempre più nella società moderna la formazione dell’opinione pubblica, nel bene e nel male, è affidata ai mezzi di comunicazione di massa. Dai giornali, alla televisione, alle agenzie di stampa, al web. Da come vengono proposti ed interpretati dai media i fatti, le notizie, così la pubblica opinione si “modella”. Ben si può comprendere, allora, come sia vitale per la democrazia che l’informazione fornita dai media non sia artefatta da interessi di vario genere: politici, economici, di potere tout court. Ma anche da “soggezione psicologica” alle istituzioni, come fu nel caso di Tortora, ma anche in quelli del commissario Luigi Calabresi, di Giancarlo Siani e via dicendo.

La verità della Magistratura, in particolare dei P.M., diventa sacra e ci si dimentica che l’ordinamento giudiziario del nostro Paese prevede tre gradi di giudizio. L’allora famosa giornalista Camilla Cederna non si pose alcun problema di opportunità quando sentenziò: “Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole: non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni. Il personaggio non mi è mai piaciuto”. Tortora era colpevole e basta, “senza se e senza ma”. Anche nel caso Calabresi c’entra la Cederna. Lo accusò in un suo libro di essere l’uccisore dell’anarchico Pinelli. L’allora questore di Milano addossò a lei la responsabilità di essere “il mandante morale dell’omicidio di Calabresi”. Ma non è finita. La nota giornalista scrisse un libro diffamatorio su Giovanni Leone, allora presidente della Repubblica. Il libro e le accuse in esso contenute fecero talmente scalpore che Leone fu costretto a dimettersi. Tutto falso. Ci vollero ben dieci anni per far venire fuori la verità: Giovanni Leone era totalmente innocente dalle accuse che gli erano state rivolte dalla giornalista. Difronte a questi fatti è il caso di citare la cattiveria dello scrittore, umorista e docente statunitense Mark Twain: “Il giornalista è colui che distingue il vero dal falso… e pubblica il falso”. E certe cose le fa per puro tornaconto personale. Basta però ricordare i tanti cronisti uccisi perché avevano ben distinto “il vero dal falso” e pubblicato il “vero” per capire, in generale, quanto bugiardo ed ingiusto sia l’aforisma dello scrittore americano. Bisogna però avere l’obiettività di riconoscere che non tutto il mondo dell’informazione è disponibile “ogni giorno a dare un dispiacere a qualcuno”, secondo la concezione di Benedetto Croce.

Enzo Tortora era anche amico di Luigi Calabresi, di cui in questo periodo si celebra il quarantaseiesimo anno dell’uccisione. Fu, tra i tanti giornalisti noti dell’epoca, l’unico a prendere le difese del commissario. Altri intellettuali, invece, condussero una campagna contro il funzionario, sfociata in una “lettera aperta” con 800 firme: Calabresi era colpevole. Punto e basta.

Nessuno tra i “colleghi” che contavano ebbe l’idea che Giancarlo Siani potesse essere stato ucciso per quello che aveva scritto. Venne ipotizzato dai magistrati che la sua morte doveva attribuirsi a fatti miserevoli di donne ed omosessualità. Malvagie fantasie. Ci vollero ben dodici anni perché uscisse fuori la verità: aveva fatto solo il suo mestiere di cronista. Casi, quelli citati, che devono far riflettere: nelle mani dei giornalisti c’è un’arma che può far giustizia, portare a galla la verità, ma anche uccidere. E spesso sono i più deboli a farne le spese.