Dobbiamo di riprendere la vita comunitaria, non solo virtuale». La trattativa ingaggiata con Palazzo Chigi e col Viminale arranca, i vescovi sono stati messi in attesa, il loro dossier è in fondo alla lista, dopo quello di imprese e settori produttivi. Eppure l’ultima lettera recapitata al governo è perentoria: le limitazioni – si dice – se prolungate o non proporzionate all’evolversi dell’epidemia assumerebbero i caratteri dell’arbitrarietà. Un’ampia fetta del popolo cri stiano ribolle. I toni usati a volte sono di fuoco. Come sempre sono i blog e i siti in senso tradizionalista a far emergere le tracce di una insofferenza serpeggiante. C’è chi accusa la Cei di essere succube del governo Conte, di aver accettato la negazione delle messe digerendo una violazione delle norme concordatarie. Insorgono anche gli insegnanti di religione. Scrive Anna Maria De Matteis su Stìlum Curiae: siamo in «una dittatura strisciante» mentre i sacerdoti «si lanciano in gesti para-liturgici che rasentano la blasfemia in diretta Web». Anche Radio Maria, messa all’angolo persino dai vertici vaticani in passato per il suo estremismo, è divenuta in questi giorni un punto di riferimento delle anime cattoliche inquiete. «Forse sei tentato di abbandonare la grande avventura del Vangelo, per vivere in una quotidianità senza slanci e senza rischi. Caro amico, se Dio tace, sappi che però è sempre presente», si rivolge padre Livio Fanzaga ai suoi ascoltatori. Sembra che siano tanti quelli che gli scrivono smarriti. Il sociologo delle Religioni, Massimo Introvigne, ha condensato bene anche i timori che si celano dietro al lockdown. Le chiese sono state chiuse storicamente durante la Rivoluzione francese, nel Messico della guerra civile e in Albania sotto il regime ateo di Hoxha, ha ricordato in un intervento. «Que sto ha fatto ingenerare anche la convinzione che la persecuzione semini nuovi proseliti, in realtà non è così». Dunque, mutatis mutandis, la sospensione delle celebrazioni «con popolo», la messa in pausa di funerali, matrimoni, battesimi, consigli parrocchiali, significherà anche una dispersione del gregge? «Questo non lo so ma la gente ha aspettato troppo – risponde Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno – e fa molta pressione per poter riprendere la vita normale delle parrocchie. Noi ci troviamo tra due fuochi: da un lato la gente preme su di noi e dall’altro ancora non arrivano le direttive del governo. Ricevo continuamente lettere e messaggi di fedeli, anche un po’ arrabbiati, come se fossimo noi vescovi a vietare. Molti non capiscono neppure che è il governo che prende le decisioni. Anche se qui dovremmo aprire un’ampia riflessione, perché si stanno mettendo le mani negli affari interni della Chiesa