A cura di Teresa Lucianelli:

Napoli. “Un vizietto napoletano” è fino al 30 gennaio, all’Augusteo, spettacolo scritto, diretto, musicato e interpretato da Gianfranco Gallo, che propone fra trans e politica, sincerità e menzogna, trascinando il pubblico in un vortice di situazioni comiche. Non mancano i colpi di scena e la giusta ironia sull’ ipocrisia umana tipica di tanti personaggi di partito e pure l’approfondimento – servito con piacevole leggerezza – di tematiche delicate, come la diversità di genere.

Insieme a Gianfranco Gallo: Gianni Parisi, Gianluca Di Gennaro, con la partecipazione di Salvatore Misticone, esilarante come da aspettative, maggiordomo/cameriere improvvisato per necessità, caratterizzato da un’improbabile origine francese imposta e puntualmente tradita dalla spiccata napoletanità.
Fanno parte del cast anche: Stefania Aluzzi, Lisa Imperatore, Gianluigi Esposito, Raffaele Parisi, Giosiano Felago, Nando Romano.
Lo spettacolo prodotto da Prospet, è ispirato a “La cage aux folles”.
Le scene sono curate da Flaviano Barbarisi, i costumi da Anna Giordano e le musiche di scena da Vincenzo Sorrentino.

Il palco dello storico teatro partenopeo in questi giorni si è dunque trasformato nel “Banana Blu”, locale en travesti, gestito dall’affascinante e signorile, ma ormai attempato, Antoine Spinelli compagno della sfolgorante drug queen e primadonna Butterfly, pure lei piuttosto avanti negli anni, ma sempre capricciosa come una ragazzina, che ha seppellito il suo passato di uomo puntando su di una spiccata femminilità, sconosciuta a tante donne tali all’anagrafe. La crisi economica spinge Antoine e Butterfly a tentare d’inserire il Banana Blu nientemeno che nel circuito dei siti dedicati ai pellegrini, attraverso un contatto politico, finalizzato proprio alla gestione dei fondi per la ristrutturazioni di strade e palazzi da proporre nei percorsi turistico-religiosi.
Le cose non vanno proprio male, per quanto il noto ritrovo gay necessiti di evidente è urgente ristrutturazione integrale.
A rompere fragorosamente la quasi serenità della coppia omosex e con essa del cast e dello staff del locale, giunge una 25enne dai modi sbrigativi, determinata a essere impalmata dal fratello di un politico conservatore e ufficialmente ostile alla diversità, in cerca di un padre mai conosciuto, da presentare tassativamente alla spocchiosa famiglia del suo lui. Pena il rifiuto del consenso alle nozze, da parte dello stesso politico, autoritario quanto dittatoriale, che dovrebbe finanziare il matrimonio e continuare a sostenere economicamente il futuro sposo e, in aggiunta, pure la di lui prossima moglie. Appare a questo punto evidente l’assoluta necessità di trovare e convincere il genitore a partecipare alla cena di fidanzamento…

In un incalzare di situazioni comiche, più movimentate nel secondo atto, tra allegre musiche e gustose gags, travestimenti più o meno credibili, abiti scintillanti di lustrini, parrucche e maquillage, i personaggi si distinguono da un lato per simpatia e umanità, dall’altro invece per falsità e miseria interiore, rispecchiando una realtà di fatto immutata nel tempo, che divide uomini e ruoli per animo e per sensibilità, al di là delle apparenze e dei preconcetti spesso fuorvianti.

“Un vizietto napoletano”, datato 2000, presentato al pubblico in una versione rinnovata, è ispirato a ”La Cage Aux folles”, testo del 1973 dal quale nel ‘78 fu tratto ““Il Vizietto”, film di grande successo firmato da Eduard Molinaro, con Michel Serrault e Ugo Tognazzi protagonisti. Lavori ai quali non andrebbe superficialmente paragonato, per rispetto al suo evidente volere essere altro, con una sua identità e originalità che va oltre l’ambientazione partenopea e la provenienza campana della gran parte dei personaggi e marcatamente romana di una delle “bananine”. Nulla di più errato e limitativo, dell’ aspettarsi una versione teatrale conforme al notorio spettacolo cinematografico.

Oltre ai personaggi principali, le “bananine” nel corpo di ballo del Banana Blu, variegate interpreti di una diversità datata quanto genuina e romanticamente retrò, con i loro limiti estetici, la goffaggine ingenuamente malcelata e una evidente semplicità che conquista lo spettatore, suscitando una dovuta riflessione sulla diversità di genere e sul rispetto per l’altro, che dovrebbe sempre essere primario in ogni rapporto umano.